Si racconta che quella tarda primavera fosse la più calda degli ultimi decenni; nessuno si ricordava un maggio così assolato e siccitoso, nemmeno i più anziani.
Sarà stato forse per ritrovare un po’ di frescura che la Contessa, negli ultimi meriggi, nell’ora in cui ai signori non si addiceva aggirarsi tra i campi, si ritrovava a passeggiare sulle rive del lago, ai piedi del Casone.
Lì, tra gli olmi, i salici e i giunchi, ogni pomeriggio sibilava un venticello discreto. Insolente d’inverno, amabile d’estate. Arrivava puntuale dalla costa, quando il mare si era scaldato a sufficienza nella mattinata e il gioco d’aria s’invertiva: il vento, che fino a poco prima spirava timido verso ovest, si zittiva per un po’, per poi ripartire più deciso in senso inverso, diretto a levante. Tutti i giorni.
E quel vento portava un po’ di mare anche lì, su quella terra piatta e verde, che seppure non fosse così lontana dal suo Tirreno, lo era abbastanza da impedirne la vista e, alla lunga, anche il ricordo.
Sapeva di salino, quel vento. E la Contessa era solita aspettarlo passeggiando lungo il piccolo lago, soprattutto in quel maggio secco e polveroso.
Da lì a pochi mesi sarebbe andata in sposa al Francese, così lo chiamava Carlo. Strano destino, quello dei nobili, pensava il Fattore. Si incrociano tra di loro come piante rare, pur spostandosi di terra in terra come le erbe infestanti. Entrambi provenivano da oltralpe, e si erano ritrovati qui, in terra tosca e maldetta.
Sì, maledetta perché la terra su cui adesso sudavano mille camicie per avere, sia pure in discreta quantità, quel che serviva a vivere e far un poco di provvista, un tempo era una palude da cui era meglio tenersi alla larga e talvolta, specie dopo i lunghi mesi di pioggia tra autunno e inverno, sembrava ripiombare nel suo limoso passato più remoto. Cenaria, Cernaia, Cenaja. Ancora i vecchi si tramandavano storie di fango e sudore, di zanzare mortali e di anime scomparse in quelle acque scure.
Nonostante questo, nonostante le belle colline non lontane, quei due signori francesi si erano trovati proprio qui, tra i mezzadri dalle brache sdrucite e dalle mani ampie come pagaie, spesso e volentieri in collera con Dio. Strano davvero il destino, pensava Carlo.
Il Fattore, che aveva studiato non molto ma quel poco che bastava a capire la vita e i suoi malanni, sapeva che il filo rosso delle loro vite non poteva che intrecciarsi qui.
Lei, figlia del Conte Jean De Bearn che dalla Francia era finito a Cenaja, e poi, senza nemmeno salutare, se n’era andato in Corsica: le malelingue, asserivano, perché frequentasse cattive compagnie politiche. Lui, invece, in Corsica c’era nato ma si diceva che vantasse origini assai nobili, anch’egli francese. In Corsica, l’isola dei manigoldi e dei ribelli, non ci si finiva per caso. E se il Conte Charles Pitti Ferrandi ci era perfino nato, in Corsica, significava che qualche suo avo l’aveva combinata bella. Ne era sicuro, Carlo. Quella non era isola da conti e da contesse.
La Contessa Pauline de Bearn, seppure fosse nata lì, in Cenaja, nel pieno di una vendemmia allo scadere del secolo scorso, sembrava che quell’isola ce l’avesse nel sangue. Parlava sempre di mare, di coste lontane, di ricordi…